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Eventi e Spettacoli

FELICE CARENA e gli anni veneziani

Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti

Inserito da (admin), sabato 3 aprile 2010 00:00:00

Venezia dedica una grande mostra a Felice Carena (Cumiana, Torino 1879 - Venezia,1966), protagonista indiscusso del Novecento italiano; un omaggio all'artista di origini piemontesi che scelse la Serenissima per trascorrere gli ultimi ma fecondi anni della sua carriera. Promossa dalla Regione del Veneto, dall'Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti e da Arthemisia Group, la mostra "Felice Carena e gli anni veneziani" si terrà dal 27 marzo all'18 luglio 2010, nella prestigiosa sede di Palazzo Franchetti.
Dopo la mostra dedicata nella stessa sede a Zoran Music, conclusa il 7 marzo, prosegue dunque la valorizzazione degli artisti legati alla città e, in particolare, alla riscoperta di un grande pittore come Felice Carena, da lungo tempo assente nel panorama delle esposizioni.
A distanza di quindici anni dalla rassegna svoltasi a Torino nel 1996, la mostra veneziana è la prima importante occasione per riscoprire e rivalutare il Maestro attraverso una rilettura critica aggiornata, con attenzione gli anni veneziani e ripercorrendo altresì la sua lunga attività pittorica, ricca di richiami e di soluzioni stilistiche in continua evoluzione.
A cura di Virginia Baradel e con un comitato scientifico di prestigio composto, insieme alla curatrice da Luigi Cavallo, Elena Pontiggia, Nico Stringa l'evento, coordinato da Stefano Cecchetto, riunisce oltre 90 opere provenienti dai maggiori musei italiani e da collezioni private, tracciando la parabola di una biografia artistica che si snoda dai primi anni torinesi sino alle struggenti Pietà e alle sontuose Nature morte degli ultimi anni.
In mostra capolavori esemplari, come I Viandanti (1908-1909, GAM, Udine), Ritratto di un sacerdote (1913, Galleria Internazionale d'Arte Moderna Ca' Pesaro, Venezia), Bambina sulla porta (1919, Fondazione Giorgio Cini, Venezia), La Quiete (1921-1926, Banca d'Italia), Gli Apostoli (1924, GAM Palazzo Pitti, Firenze), La scuola (1927-1928, Monte dei Paschi), Uomo che dorme (1938, Galleria Comunale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma), Teatro popolare (1933, GAM, Milano); e molte importanti opere inedite o mai esposte tra cui la bellissima Deposizione (1938-1939), eccezionalmente prestata dai Musei Vaticani, la Fuga in Egitto (1940), il Ratto delle Sabine (1942) e il nucleo centrale del discusso dipinto Dogali (1936), recentemente ritrovato ed esposto come novità assoluta in questa occasione.

L'artista
Felice Carena nasce il 13 agosto 1879 a Cumiana, presso Pinerolo, da una famiglia borghese della provincia torinese. Studia all'Accademia Albertina di Torino, dove segue i corsi di Giacomo Grosso. Frequenta l'ambiente intellettuale e letterario della città, si lega a Giovanni Cena ed Enrico Thovez, finché non si trasferisce a Roma nel 1906, entrando nel mondo culturale romano. Compie numerosi viaggi di studio in Europa (Parigi, Basilea, Monaco) e nel 1910 è già un artista di discreta fama. Affermatosi come una rivelazione nella Biennale del 1912, dove nonostante la giovane età ottiene una sala personale, diviene figura di spicco della pittura del Novecento. Osannato tra le due guerre, principe dell'Accademia fiorentina, Accademico d'Italia e vincitore del Gran Premio alla Biennale del 1940, Carena si trova tuttavia ad espiare nel dopoguerra l'ombra di una subdola rimozione sia ideologica che artistica. Nel 1944 abbandona la sua villa fiorentina, occupata dai tedeschi, e si ritira nel convento di San Marco che lascia l'anno dopo per trasferirsi a Venezia. Nella città di Tiziano e Tiepolo e delle Biennali continua a dipingere sino alla morte circondato dall'affetto dell'adorata figlia Marzia e del vecchio amico Gilberto Errera. Venezia guarisce le sue ferite e gli offre una nuova stagione di vita e di ricerca.
Espone ancora alle Biennali del 1950, 1954 e 1956, e in numerose mostre in Italia e all'estero negli anni Cinquanta e Sessanta. Gli sono amici fedeli figure come Giuseppe Roncalli (futuro Giovanni XIII) e Vittorio Cini.
Nel 1951 dipinge una pala d'altare nella Chiesa di San Rocco, nel 1963 una Deposizione per la Chiesa dei Carmini. Continua un'intensa produzione pittorica che interrompe solo all'inizio del 1966 a causa di un grave disturbo alla vista. Il 10 giugno muore nella sua casa di fondamenta Briati (Dorsoduro). Per sua volontà lascia alla Galleria di Cà Pesaro alcuni dipinti e venticinque disegni e alla Fondazione Cini un gruppo di 60 disegni.

La mostra
Il percorso della mostra si presenta idealmente come una quadreria, che bene si inserisce nelle scenografiche sale di Palazzo Franchetti. Una scelta di capolavori e di opere esemplari in ordine cronologico illustra i diversi periodi della vicenda artistica di Felice Carena per cogliere infine l'originalità e la singolare qualità della pittura del periodo veneziano.
La prima sezione è dedicata all'iniziale periodo estetizzante e crepuscolare, venato di simbolismo e di patetismo. Sono gli anni torinesi quando l'artista assimila la lezione del Grosso e quella, a lui più affine, di Bistolfi e Segantini. Si trovano qui riuniti alcuni capolavori dei primi anni dieci come La perla (1908), il Ritratto della baronessa Ferrero (1910); vari inediti come il Ritratto della sorella del 1901 e il Violinista del 1905; nonché i due celebri quadri La Rivolta (1904) dell'Accademia di Belle Arti di Roma e il monumentale I Viandanti (1908) delle Gallerie d'Arte Moderna di Udine, che segnano il passaggio dall'estetismo tardoromantico alla veemenza letteraria della denuncia sociale dei primi anni romani.
La seconda sezione presenta la svolta del 1913. Tra il 1913-1914, Carena matura infatti la prima svolta stilistica che guarda ai francesi Derain, Gauguin, Cézanne. Prosciuga ogni fusione e ogni languore, scansiona i volumi, sagoma le linee, purifica la composizione. I soggiorni nel borgo incontaminato di Anticoli Corrado contribuiscono a questa nuova visione che il pittore esprime al meglio in quadri come Ritratto di un sacerdote (1913) della Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Ca' Pesaro, Guarfalda (1914) e il capolavoro Bambina sulla porta (1919) della Fondazione Cini. Sono esposti inoltre per la prima volta La guardiana dei porci (1914 c.), Corsa con i sacchi (1919), Natura morta con aringhe (1920) e la Natura morta con fiori, che compare tra i quadri che il pittore ritirò dalla Biennale del 1914 perché Fradeletto osò avanzare delle riserve sul nuovo corso della sua pittura.
La guerra, vissuta in prima linea, accentua il desiderio di essenzialità espressiva, cui si lega il personale approccio al classicismo che guarda al Seicento, pur nel clima di Valori Plastici e di Novecento nella prima metà degli anni venti. I capolavori di questa stagione si possono ammirare nella terza sezione dove sono bene rappresentati da due capolavori come La Quiete (1921-26) e Gli Apostoli (1924). Figure modellate con la luce che emanano una sensazione di tranquillità e compostezza, nella cui tessitura tuttavia si coglie l'eco della pittura di Cézanne. Gli splendidi ritratti delle figlie e del fratello don Mario Carena segnano invece il
punto di svolta verso la produzione degli anni trenta.
La quarta sezione è dedicata al "realismo poetico", cifra inconfondibile del Maestro. Biennali veneziane e Quadriennali romane lo incoronano tra i massimi esponenti della pittura italiana. A quell'epoca il suo naturalismo cambia d'accento e trascorre dal canone classico a un realismo sempre più scabro, ruvido, espressivo. Esemplari in questo senso sono i dipinti che l'hanno reso celebre come La scuola (1927-1928) che vinse il Premio Carnegie a Pittsurgh nel 1929, Lo specchio-studio (1928) della Galleria d'Arte Moderna di Genova, Il terrazzo (1929) delle Gallerie d'Arte Moderna di Udine, La famiglia (1929) della Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma, Figura in maschera (1932) e le Bagnanti (1938) del Museo Rimoldi di Cortina. Perla di questa sezione è la straordinaria Deposizione (nota anche come Pietà ed esposta alla Biennale del 1940) della Collezione d'Arte Sacra Moderna dei Musei Vaticani (acquistata dal conte Cini e poi donata a Paolo VI), eccezionalmente prestata per la mostra veneziana. In questa sezione si trovano inoltre due capolavori come Teatro popolare (1933) della Galleria d'arte Moderna di Milano e Uomo che dorme (1938) della Galleria Comunale di Roma. Chiude la sezione il dipinto Dogali (1936), unica concessione dell'artista alla retorica fascista, che suscitò aspre polemiche
alla Biennale del 1936 perché i morti erano struggenti e non eroici; un quadro fatto "a fette" dallo stesso Carena, lasciando però intatto il magnifico nucleo centrale che è stato ritrovato solo recentemente, dopo un'accurata ricerca, e quindi mai esposto prima d'ora.
Seguono nella quinta sezione, dopo l'omaggio a Delacroix con l'Angelo che lotta con Giacobbe (1939) dalle Gallerie d'Arte Moderna di Udine e Tobia e l'Angelo (1940), alcuni quadri a cavallo tra gli anni trenta e quaranta che culminano nell'importante mostra alla Galleria Michelangelo a Firenze nel 1943, l'unica personale che allestì nella prima città d'adozione che vide la sua ascesa come pittore e come direttore all'Accademia. Carena tende ora alla piena luminosità anticipando di fatto alcuni esiti del successivo periodo veneziano. Alcuni quadri mai esposti come Fuga in Egitto (1940 c), dove calde cromie sulla gamma dei rossi e dei gialli
esaltano il delicato dinamismo del gruppo dei pellegrini, L'Angelo che sveglia i pastori (1940), Il ratto delle Sabine (1942) e La conversione di Saulo, in cui l'animazione si fa più concitata e i colori più tenui e contrastati.
La sesta sezione presenta una serie di quadri mai esposti che segnano il passaggio a Venezia. Opere come l'Esodo (1943), Pioggia di Fuoco (1943), Il passaggio del mar rosso, Busto di Marzia (1946), Autoritratto (1947) e Bagnanti rivelano l'approdo ad un uso del colore come materia cromatica pura, sempre meno arginata dalla linea, mentre il segno diventa più libero e compendiario. Una linea sempre più densa e sinuosa e una pasta ancora più accesa caratterizzano i lavori della fine degli anni quaranta nei quali l'artista sembra guardare a Daumier, trasformando i suoi eroi popolari e mitologici, o biblici, in figure grottesche e altamente drammatiche, siano esse Caino e Abele, Giuditta e Oloferne (1946-48) o un semplice Pastore (1970).
È questa la linea che si afferma negli anni cinquanta, qui proposta nella settima sezione, quando Carena raggiunge l'acme della tensione religiosa; il segno è ormai vibrante e il colore veemente e macerato. La figura dell'uomo e di Cristo in croce si avvicinano: Il Cristo delle ultime Pietà, e con lui ogni uomo che si riconosce nello strazio del Calvario, diventa la figura cardine del dolore e dell'abbandono che trovano in Carena veneziano un cantore altissimo.
Sono opere d'intenso espressionismo Teatro popolare (1952) di Ca' Pesaro, Pietà, della Galleria Civica di Vittorio Veneto, Angoscia (1956) della Collezione Marzotto.
La mostra si conclude con l'ottava sezione dove, come in un ideale luogo di purificazione, sono raccolte le nature morte. L' animo dell'artista sembra trovare quiete nella luce veneziana.
Ispirato da Tiepolo e, parimenti, dal contemporaneo Morandi, Carena fonde materia e luce nei corpi solidi e altamente simbolici delle sue nature morte dove dominano le conchiglie. Nella tessitura cromatica della pasta pittorica mantiene vive la sontuosità e la solennità della vena barocca, mentre calibrando la composizione tende a una meditata sintesi che unifica spazio, luce e materia. È in quest'ambito che i colori ritrovano quei bagliori di gemma, quello splendore recondito che traduce nella pittura di ogni epoca, l'incessante e pulsante amore per la vita di Felice Carena.

Venezia diventa dunque il prisma attraverso cui rileggere l'intera storia della pittura di Felice Carena che accanto ai grandi estimatori ebbe anche critici avversi: gli venivano contestate la pluralità di richiami e la mancanza di coesione compositiva. La mostra e i saggi del catalogo Marsilio, portano oggi alla luce la sua inconfondibile cifra personale e sfatano l'idea di un Carena, vecchio, sofferente, ripiegato su se stesso perché il tramonto dal punto di vista biografico portò al raggiungimento di nuovi traguardi, attraverso un'altissima e inesausta ricerca.

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