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Metempsicosi?

In mostra 24 lavori di Giuseppe Fortunato sulle opere di Lorenzo Lotto

Inserito da (admin), giovedì 29 luglio 2010 00:00:00

Non credo alla numerologia eppure è capitato anche a me di utilizzarla a mio vantaggio allorché, una ventina d'anni fa, frequentavo la Cina. I cinesi sono molto attenti a quelli che ritengono essere i segni del destino (disseminati in ogni dove, anche fra i numeri) ed io, figlio dell'occidente razionalista che trae origine dal pensiero greco, cercavo, un po' forzatamente per la verità, di piegare questa loro propensione al mio interesse del momento. E ci riuscivo pure, come potrei raccontare abbondantemente tirando in ballo Marco Polo, Li-ma-Do (Matteo Ricci), Lang-Shi-Ning (Giuseppe Castiglione). Ma questo è un altro discorso.
Non credo neppure alla metempsicosi (né a quella pitagorica, né a quella platonica né a quella induista o buddista) eppure c'è, nella vicenda umana (e anagrafica) di Giuseppe Fortunato, qualche curioso accidente che riconduce sia all'una che all'altra credenza. Dunque Fortunato, pittore, abita a Cingoli, nelle Marche, dove è conservata, presso la chiesa di San Domenico, una delle più belle (e dai significati parzialmente arcani, secondo l'analisi iconologica) pale d'altare, dipinta da Lorenzo Lotto, pittore anch'egli, nel 1539. Fortunato abita nelle Marche anche se è nato altrove (in Abruzzo); Lotto abitò, lavorò e morì nelle Marche anche se proveniva dal Veneto. L'antico maestro è morto nell'anno 1556 e l'artista contemporaneo è nato nel 1956, esattamente 400 anni dopo la morte dell'altro. Vuol dire qualche cosa? Dal punto di vista logico certamente no, al massimo può trattarsi di una curiosa coincidenza. Ma se ci rifacciamo alla numerologia e alla metempsicosi di cui si diceva all'inizio, magari.............
Nessuno può ragionevolmente pensare che Lorenzo Lotto, morendo, sia trasmigrato con la sua anima in quella di Giuseppe Fortunato (anche perché ci sarebbe da chiedersi dove sia stato e che cosa abbia fatto in quattrocento anni di latitanza!): razionalmente parlando sicuramente no. Ma se uno pensa che Fortunato è l'inventore dell'Assempaforismo (per saperne di più consultare la bibliografia dell'artista, magari il testo di Carlo Occhipinti del 1988) allora può anche credere che - nell'ottica assempaforica - ciò abbia un senso; oppure un non-senso che, assempaforicamente parlando, fa la stessa cosa. Perché l'Assempaforismo è il terreno del paradosso.
Si sa che, a volte, nell'arte si annida una forte componente ludica. Così è per l'espressività di Fortunato per il quale il gioco e l'ironia (la seconda sottile e talora sottotraccia) si rincorrono, si trovano, si congiungono. Così avviene quando il nostro artista abruzzese-marchigiano impatta e approfondisce l'opera lottesca, di questo pittore cinquecentesco che, manieristicamente, manifesta il "gusto di andare controcorrente" (come dice Giulio Carlo Argan) in maniera polemica e, talvolta, anche un po' irriverente.
Che sia una sola anima (la stessa) ad agire o che siano due, certo è che la risposta alle sollecitudini del mondo sembra essere (tenuto conto di quei quattro secoli che ci sono in mezzo) la medesima: ironica, divertita, paradossale.
Oggi viviamo in un periodo storico che ha fatto, in qualsivoglia manifestazione creativa, del citazionismo la modalità espressiva preferita. Si cita l'altrui pensiero (anche quello visivo) a sostegno del proprio. E al tempo stesso si ama contaminare: i generi, i materiali, le epoche, gli stili. Così Fortunato contamina le opere del Lotto. Se è vero - sempre assempaforicamente parlando - che l'anima lottesca sia trasmigrata in quella del pittore abruzzese-marchigiano, adesso è quest'ultimo, nel XXI secolo, quasi per applicazione della legge dantesca del contrappasso, a penetrare nell'immaginario visivo del veneto attraverso la manipolazione delle immagini e degli spazi di alcuni suoi celebri dipinti. L'alfabeto visivo di Fortunato si accosta, senza alcuna violenza, con rispetto formale e cromatico anzi, anche se con una considerevole dose di divertimento, a quello del Lotto e sembra completarlo, lo modernizza, lo rende pasto digeribilissimo all'ermeneutica del nostro tempo. Quindi tesse - sia pure ironicamente - una tela che collega il passato al presente, la tradizione alla modernità. La qual cosa rappresenta un discorso maledettamente serio in un periodo della storia in cui s'è perso il sentimento del passato e non si è più capaci di pensare, se non in modo maldestro, al futuro, permanendo passivamente in una condizione di effimera, fragile, edonistica fruizione dell'hic et nunc priva di ogni prospettiva, sia indietro che in avanti . Ma l'ironia - non ci stancheremo mai di ripeterlo - è una cosa da prendere sul serio perché induce a pensare. Beninteso coloro che sono in grado di farlo.

Armando Ginesi

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